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Oggi troviamo i Giudei che mormorano contro Gesù perché dice di provenire dal cielo.
Da una parte, abbiamo Gesù che ha affermato le sue origini celesti – quindi, divine - e, dall’altra, i giudei che sminuiscono tutto questo e che riducono Gesù a uno di loro. Assistiamo, conseguentemente, ad un’operazione di “riduzione” della figura di Gesù da parte dei Giudei.
Ho provato a pensare che anche noi siamo questi Giudei, tutte le volte che riduciamo Gesù o che lo sminuiamo.
Proviamo a pensare al tempo ridotto che dedichiamo a Gesù; proviamo a pensare a quando, nella nostra vita, pensiamo che tutto dipenda da noi, come se il Dio di Gesù non c’entrasse niente con la nostra vita.
Ci sono ambiti della vita in cui Dio non entra: lo abbiamo ridotto, relegato a poca cosa.
Nel Vangelo, Gesù, di fronte a questa mormorazione, sembra non agitarsi: al contrario, è consapevole che la fede in Lui è un dono del Padre.
Con quelle parole (“Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre”), Gesù ci ricorda come la fede sia un dono.
L’azione di riduzione della figura di Gesù viene contrastata dall’agire del Padre, che ci attira verso Gesù. È il Padre che apre il nostro cuore alla fede.
Mi sono chiesto: quando noi facciamo esperienza, nella vita, di un Dio che è Padre e che ci attira, che crea le condizioni di possibilità affinché il nostro cuore si apra alla fede ?
Potremmo riformulare la domanda in questo modo: è possibile rinvenire, nella vita, esperienze in cui avvertiamo che Dio ci attira ? Nella vita è possibile fare esperienza di Dio ?
La vita ci offre esperienze in cui intuiamo che la vita stessa non è nelle nostre mani, ma ci supera e diciamo che è nelle mani di qualcuno o qualcosa di più grande di noi ? La vita può regalarci alcuni passaggi in cui si risveglia in noi la nostalgia di Dio ?
Se così fosse, potremmo dire che la vita è questo Padre che ci attira.
Ho provato a pensare che, effettivamente, nella vita, se noi stessimo attenti, vi sono esperienze che ci fanno intuire che la vita stessa è nelle mani di qualcosa e qualcuno più grande di noi.
Prendo un primo esempio dall’esperienza dell’amore tra un uomo e una donna. Dove trova il coraggio uomo o una donna di dire all’altro “ti amerò per sempre” ? Non si può trovare questo coraggio in se stessi perché, se uno è onesto, sappiamo quanto la nostra umanità sia segnata da molte contraddizioni, da quanto siamo fragili e incoerenti; eppure, l’amore verso l’altro ci porta fuori da noi stessi e ci fa dire all’altro “ti amerò per sempre”. Non si può trovare il coraggio di dire “ti amerò per sempre” nemmeno nell’altro a cui lo si dice perché anche l’altro, in quanto appartenente alla carovana dell’umanità, rimane segnato dalle proprie contraddizioni e fragilità.
L’esperienza dell’amore è qualcosa di più grande di noi. Non a caso, noi diciamo che Dio è amore. Dentro l’avventura amorosa, noi percepiamo di essere portati da qualcosa di più grande di noi.
Per questo, diciamo cose più grandi di noi, che ci superano. Per questo si viene a dire in Chiesa “ti amerò per sempre”: per chiedere a Dio che ci aiuti a sostenere questa promessa di un amore per sempre.
Vi sono, poi, quelle esperienze che ci fanno avvertire la solitudine e, dentro la solitudine, noi intuiamo che la vita stessa non è nelle nostre mani, bensì ci supera. Ci sono alcuni passaggi della nostra vita in cui avvertiamo la solitudine (quando siamo chiamati ad assumere alcune responsabilità oppure, nell’esperienza della malattia, quando, nonostante ci siano vicine molte persone, ci accorgiamo che dobbiamo affrontare da soli una terapia oppure un intervento e nessuno può sostituirsi mettersi al nostro posto). In queste situazioni di solitudine, spesso si avverte che non comandiamo noi la nostra vita, ma c’è qualcosa di più grande di noi che la sostiene e la guida.
A volte, esprimiamo questa nostra sensazione accendendo una candela, oppure facendo un segno di croce, senza sapere cosa stiamo facendo; tuttavia, essa è pur sempre una forma di affidamento a qualcosa e qualcuno più grande di noi.
Infine, l’esperienza stessa della morte, che (apparentemente) ci toglie tutto e sembra essere più forte della vita stessa, ci interroga sul fatto che possa aprirsi qualcosa di più grande di noi, che raccolga tutta la nostra vita, senza farla cadere nel vuoto.
Queste esperienze, che la vita ci offre, ci fanno dire che c’è qualcosa più grande di noi, su cui fondare la nostra vita.
Queste esperienze sono la modalità con cui possiamo farci attirare dal Padre; sono anche la condizione che rende possibile riconoscere in Gesù il volto di questo qualcuno più grande di noi.
La fede non è altro che dare il volto di Gesù a questo qualcosa, qualcuno di più grande di noi, che sostiene la vita, di cui possiamo fare esperienza nella vita stessa.
Se, nella nostra vita, abbiamo compiuto, come i giudei, un’operazione di “riduzione” della figura di Gesù, chiediamo al Padre di attirarci a lui attraverso le molteplici esperienza che la vita ci offre.
Chiediamo al Padre di risvegliare in noi la nostalgia di Dio, così da riconoscere Gesù come il Pane vivo, disceso dal cielo (e non - solo - il figlio di Giuseppe).
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