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OMELIE ANNO A 2019-20
 
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IIIa dopo Pentecoste - Domenica 21 giugno 2020
(Gn 2,4b-17; Rm 5,12-17; Gv 3,16-21)

don Davide Milanesi

Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Lo stile di Gesù è quello di Chi è stato mandato nel mondo non per condannarlo.
Se vogliamo essere uomini e donne come Gesù dobbiamo guardare a questo mondo, senza, però, condannarlo. Possiamo già chiederci: «Ho per il mondo gli stessi sentimenti di Dio Padre e del figlio Gesù, che ha dato la vita per “questo” mondo, per queste sorelle e questi fratelli, senza aspettare un mondo migliore o fratelli e sorelle migliori?».
Quale sguardo ho su questo mondo?
Lo sguardo di chi condanna è lo sguardo di chi, continuamente, dice, un po’ sconsolato, “non è più come una volta”: espressione vera, che, però, diventa una condanna, quando legittima a chiuderci in noi stessi, senza cercare di amare questo mondo, con la sottile presunzione di sentirci nel giusto, che ci fa rinunciare ad amare.
Lo sguardo di condanna è lo sguardo di chi, continuamente, vede complotti: vede il demonio in azione da tutte le parti, rimanendo, in compenso, cieco di fronte a tutto il bene che, ancora, luccica in questo mondo.
Gesù non viene a condannare: Gesù viene a salvare e, perché la salvezza abbia inizio, chiede uno sguardo di simpatia su questo mondo.
Quale sguardo abbiamo su questo mondo?
Questa mi pare sia la domanda, la provocazione che il vangelo ci pone questa sera.
Potremmo tradurre questo stile che non condanna con le parole scritte da Paolo Borsellino nel suo diario: «Palermo non mi piaceva; per questo ho imparato ad amarla, perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare».
Essere uomini come Gesù vuol dire guardare a questo mondo, vedere ciò che non ci piace e amarlo per cambiarlo, senza condannarlo.
Questo mi fa dire che la grande questione della nostra vita non è convertire il peccatore a Dio, ma imparare il giusto e - allo stesso tempo – misericordioso sguardo di Dio.
Per dirla con la parabola del Padre misericordioso: la questione più grossa non è convertire il figlio minore, ma il maggiore, alla stessa larghezza d’animo del Padre.
Oppure, per dirla con la storia di Giona: la questione non è convertire quelli di Ninive, bensì Giona a quelli di Ninive; non il mondo alla Chiesa, ma la Chiesa al mondo, nel senso che la Chiesa non condanni questo mondo, ma continui ad amarlo, pur prodigandosi, affinché esso possa sviluppare al massimo le proprie potenzialità.
Non condannare il mondo vuol dire che, pur vedendo il male, non rinuncio ad amare. E l’opera dell’amore è quella di togliere il male che c’è nel mondo ed in ciascuno di noi, così da far venire alla luce il bene.
Per usare un’immagine, mi riallaccio a quello che Michelangelo pensava circa la scultura: la forma della statua è già nel blocco di marmo, prigioniera della pietra; bisogna liberarla, perché venga alla luce e mostri al mondo la propria bellezza.
Così, l’immagine di Dio, l’immagine di Gesù, impressa in ciascuno di noi, è prigioniera delle nostre paure, ma c’è. Si tratta di farla venire alla luce.
Gesù non viene per condannare questo mondo, ma per salvarlo; la salvezza risiede nella capacità di far venire alla luce l’immagine di Dio che è presente in ciascuno di noi.
Concludo con le parole del film Coach Carter:
La nostra più grande paura non è quella di essere inadeguati, ma di essere potenti oltre ogni misura. È la nostra luce, non la nostra oscurità, che ci spaventa.
Noi siamo nati per rendere manifesta la luce dentro di noi.

Perché la luce si manifesti, dobbiamo abbandonare gli sguardi di condanna su questo mondo!

  don Davide

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