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OMELIE ANNO B 2020-21
 
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IIIa Domenica dopo l'Epifania - Domenica 24 gennaio 2021
( Nm 11,4-7.16a.18-20.31-32a; 1Cor 10,1-11b; Mt 14,13b-21 )

don Davide Milanesi

Mi pare ci possano essere delle analogie tra la prima lettura ed il Vangelo.
Israele si trova nel deserto ed è stufo di mangiare la manna: chiede la carne, ma, nello stesso tempo, rimpiange i giorni della schiavitù in Egitto. Dio decide di dare agli Israeliti la carne, ma è risentito per il fatto che abbiano respinto il Signore e pianto davanti a lui.
Israele sta vivendo una nuova condizione, quella della libertà: certo, la vive in una nuova situazione, quella del deserto; in questa novità in cui Israele si viene a trovare, invece di affidarsi a Dio, invece di fidarsi di Dio, ecco che rimpiange il passato (meglio la schiavitù, con delle garanzie, invece di questa novità della libertà, in condizioni di vita che chiedono continuamente di affidarsi a Dio!).
Nel Vangelo troviamo qualcosa di analogo.
Di fronte a questa folla affamata, invece di congedarla, perché possa trovare da mangiare, Gesù chiede ai suoi discepoli qualcosa di nuovo, di inedito: “date voi stessi da mangiare”. I discepoli, di fronte a questa richiesta, invece di insistere su una modalità che non li coinvolgerebbe, non li impegnerebbe (lasciare che ciascuno si arrangi), si affidano a Gesù, dicendo a lui la loro povertà (“non abbiamo altro che cinque pani e due pesci”).
I discepoli mettono nelle mani di Gesù il poco che hanno: è il gesto di chi, di fronte a qualcosa di nuovo (“date voi stessi da mangiare”), si affida a Gesù, mettendo nelle Sue mani il poco che ha.
Questi due testi mostrano due modi diversi di stare dentro la novità: Israele rimpiange il passato, mentre i discepoli riconoscono la loro povertà e si affidano a Gesù. Guardandoli assieme, questi due brani vogliono farci comprendere che la novità può rivelarsi occasione per crescere nella fede.
Quando la vita ci presenta qualcosa di nuovo, noi siamo chiamati ad affidarci a Dio, a non confidare solo sulle nostre forze, mettendo il poco che abbiamo nelle mani di Dio. La novità mette a nudo la nostra povertà e ci chiede un atto di affidamento a Dio, affinché possa tracciare strade mai immaginate prima, che ci consentano di abitare la novità.
Il rifiuto della novità, al contrario, ci rende uomini e donne lamentosi, che, continuamente, rimpiangono qualcosa che non c’è più. L’accoglienza della novità diventa, quindi, la condizione per crescere nella fede, ma, al contempo, la fede ci fa compiere dei passi verso qualcosa di nuovo.
Mi spiego: è anche grazie alla fede che uno può passare dal fidanzamento al matrimonio ma, nello stesso tempo, questo passaggio verso la novità del matrimonio ci fa crescere nella fede, ci chiede di affidarci a Dio. Se non si entra in una definitività di vita, anche la nostra fede rimane ferma.
Oppure, con un altro esempio: la nascita di un figlio è sostenuta dalla nostra fede, ma la venuta al mondo di un figlio ci chiede di affidarci al Signore, riconoscendo le nostre povertà o, meglio riconoscendo la sproporzione tra ciò che siamo ed abbiamo e il compito educativo che un figlio chiede.
Anche di fronte alla richiesta di un servizio in comunità, la fede può sostenerci nel farlo, ma, nello stesso tempo, la novità di questo servizio ci fa crescere nella fede. Ad esempio, è la fede che può farci accogliere il servizio della catechista, ma, nello stesso tempo, mentre svolgo questo servizio per la comunità, la mia fede cresce.
Se non accolgo mai una novità di vita, difficilmente la fede farà qualche passo.
Ancora: si entra nella novità di una situazione pastorale per fede, ma, nello stesso tempo, la novità di quella situazione pastorale è l’occasione per crescere nella fede. Dico l’occasione perché non è inevitabile: potrebbe anche diventare un piangersi addosso, un rimpiangere l’Egitto che non c’è più.
Se sto sempre in Egitto, la mia fede non cresce.
La novità di questa situazione, legata alla pandemia (nella quale non siamo entrati mossi dalla fede, ma costretti), può diventare l’occasione per crescere nella fede.
Papa Francesco continua a ripetere che le crisi nella vita arrivano, ma la cosa importante è uscire dalla crisi meglio di come ci siamo entrati. La crisi, quindi, dovrebbe aiutarci a far progredire la nostra umanità, a uscire dalla crisi come persone umanamene più belle, con un’umanità sempre più simile a quella di Gesù.
Se solo questa crisi ci facesse diventare uomini e donne più umili sarebbe una gran cosa; uomini e donne che, di fronte alle richieste della vita, hanno l’umiltà di dire: «Abbiamo solo cinque pani e due pesci».
Oggi è la domenica della Parola di Dio: certamente, l’ascolto di questa Parola sostiene la nostra fede; una fede che è provocata e stimolata, nella sua crescita, proprio dalle condizioni di vita nuove, nelle quali entriamo sia per volontà nostra, sia perché la vita ci costringe ad entrare.
Quando entro in situazioni nuove mi viene alla mente un salmo (27) che dice così:Signore, se tu non mi parli, sono come chi scende nella fossa.
Quando la vita ci pone in condizioni nuove, chiediamo al Signore di parlarci, affinché non ci sentiamo abbandonati e scoraggiati.

  don Davide

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