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In questi giorni, pensando a questa festa di tutti i Santi, mi chiedevo quale legame ci fosse tra questa celebrazione e la commemorazione dei nostri morti. Certamente, c’è un primo livello di legame, che ci rimanda alla Pasqua di Gesù, in cui la morte è riletta come il passaggio per entrare in quella gloria di Dio, nella quale si gode della gioia eterna della beatitudine senza fine.
Ho, però, provato a pensare ad un tratto della santità che può nascere dal pensare alla propria morte (in realtà è solamente un tratto: non ho la pretesa di dire che questo sia l’unico tratto della santità). Il tratto a cui mi riferisco è la capacità di ridere di sé.
Forse, parlando un po’ fuori dal linguaggio canonico, possiamo dire che il santo ride di sé.
La santità è – insomma – questa via verso la capacità di ridere di sé. Ridere di sé è prendere le distanze dal proprio io: è la prima cura contro l’individualismo, è la capacità di relativizzare molte cose per lasciare spazio a Dio nella nostra vita.
Credo che, in tutto questo, il pensiero alla nostra morte, pur nella sua drammaticità, può aiutarci a ridere di noi stessi.
Dovremmo imparare a ridere di noi stessi quando, a motivo delle cose che abbiamo, ci vantiamo, oppure quando costruiamo la dignità della nostra persona e di quella degli altri a partire da ciò che si possiede: siamo ridicoli quando ci lasciamo invadere da un senso di onnipotenza a partire da ciò che abbiamo. La morte è li a ricordarci che lasceremo tutto, che ritorneremo alla terra nudi, come siamo usciti dal grembo di nostra madre. Gesù, non a caso, oggi ci ha detto “Beati i poveri”.
Dovremmo imparare a ridere di noi stessi, quando combattiamo delle battaglie di principio, con spirito vendicativo, senza poter minimamente pensare al perdono come possibile soluzione dei conflitti. La morte è lì a ricordarci che non fa differenze e che Gesù è morto anche per quel fratello che io non voglio perdonare: per questo, è meglio morire in pace con tutti. Gesù, non a caso, oggi ci ha detto “beati i miti, beati gli operatori di pace, beati i misericordiosi perché troveranno misericordia”.
Dovremmo imparare a ridere di noi stessi, quando ci riempiamo la bocca di parole che inneggiano alla giustizia, all’amore fraterno incondizionato, senza, però, far seguire alle parole gesti di giustizia e di carità. Senza essere, insomma, disposti a pagare il prezzo della giustizia e dell’amore incondizionato. La morte è lì a ricordarci che le nostre parole cadranno nel vuoto, mentre i gesti e il sangue versato in nome della giustizia porteranno ad un mondo nuovo. Gesù, non a caso, oggi ha detto “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, beati i perseguitati a causa della giustizia perché di essi è il regno dei cieli”.
Dovremmo imparare a ridere di noi stessi, quando ci pavoneggiamo dentro il nostro corpo giovane e forte, quando lo ostentiamo e lo curiamo come se fosse l’unica cosa a dare dignità alla nostra persona (quante sofferenze, dietro alla cultura dell’essere sani e belli, senza un chilo di più e un chilo di meno!). La morte è lì a ricordarci che i nostri capelli diventeranno bianchi e i nostri muscoli si afflosceranno e non ci porteranno sempre dove vorremo. Gesù, non a caso, oggi ha detto: “Beati i puri di cuore”.
Manca l’ultima beatitudine: “Beati gli afflitti beati voi quando vi insulteranno...”. Credo che dovremmo imparare a ridere di noi stessi, quando cerchiamo il divertimento a tutti i costi, quando siamo disposti a pagare prezzi alti per ogni forma di evasione dalla tristezza. Dimenticando che la tristezza fa parte della vita e va accolta e portata senza disperazione. Perché, se la morte è lì a ricordarci questo, la Pasqua di Gesù ci offre, invece, sempre una speranza: ci offre la possibilità di sorridere nuovamente, per ricominciare.
Oggi, proviamo a pensare ai santi come a coloro che si appoggiano sulle piccole gioie della vita, perché sanno che la più persa di tutte le giornate è quella in cui non si è riso. E noi, pensando alla nostra morte, cosa aspettiamo a ridere di noi stessi?
È questa la via della santità!
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