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Mi piacerebbe che provassimo ad immaginare di essere noi i lavoratori di questa vigna. Anzi, mi piacerebbe che ciascuno si immaginasse, scegliendo lui di essere un lavoratore della prima ora o dell’ultima: ciascuno scelga quello che preferisce.
Ma, ancor di più, mi piacerebbe che provassimo ad immaginare il giorno dopo.
Cosa facciamo, il giorno dopo: andiamo o non andiamo a lavorare da un padrone che retribuisce in questo modo? Il giorno dopo, a che ora ci facciamo trovare sulla piazza?
Ho provato a pensare a tre tipi di soluzioni:
La prima: Il contestatore. Uno potrebbe decidere di non andare da un padrone così: è troppo fuori da ogni schema, come si fa a lavorare da uno così, che non riconosce le differenze, che non gratifica chi ha lavorato di più?
La seconda: il furbo. Vedendo la bontà del padrone, pensando che il padrone è un bonaccione, allora se ne approfitta, dunque si fa trovare sulla piazza all’ultima ora. Il furbo decide di lavorare un’ora, perché tanto prende sempre lo stesso.
La terza: il sindacalista. Prende, va a parlare con il padrone, cercando di spiegargli meglio come retribuire i suoi dipendenti, cercando di fargli fare un contratto che tenga conto di chi ha lavorato di più rispetto a chi ha lavorato meno, un contratto comprensivo di premio di produzione, tredicesima e quattordicesima: insomma, un contratto giusto, che si rispetti.
Cosa hanno in comune queste tre personaggi? La presunzione! La presunzione di sapere loro che cosa è giusto.
Il contestatore decide di non andare, perché sa che il padrone, facendo così, sbaglia perché non paga in base al merito; da uno che non premia chi merita, meglio non lavorare.
Il furbo, proprio in quanto furbo, se ne approfitta. È presuntuoso perché, pensando che il padrone sbagli, se ne approfitta.
Il sindacalista, per il fatto stesso che voglia spiegare al padrone come retribuire i suoi operai, vive, infine, nella presunzione di sapere cosa è giusto.
Insomma ciò che è giusto lo sanno i lavoratori e non il padrone; ciò che il padrone deve fare lo sanno i lavoratori.
Ma nella parabola vi leggiamo che è il padrone a dire: “ciò che è giusto, te lo darò”.La parabola mette in evidenza il fatto che noi siamo sempre pronti a costruirci un Dio a nostra immagine e somiglianza. Noi siamo proprio bravi a dire che Dio mi lascia libero, ma non proviamo a pensare che anche Dio è libero di fare ciò che vuole. Abbiamo sempre la tentazione di ingabbiare Dio dentro le nostre idee i nostri modi di pensare, viaggiamo sempre con la presunzione che Dio entri dentro le nostre logiche, invece di pensare che siamo noi ad essere chiamati ad entrare nella logica di Dio.
In realtà, oggi la parabola ci chiede di pensare il rapporto tra Dio e l’uomo come il rapporto tra due libertà: la mia e quella di Dio; talvolta, però, noi ci prendiamo la libertà di ingabbiare Dio, di vincolare Dio ai nostri bisogni.
Dentro questo rapporto libero, la parabola vuole farci scoprire la bontà di Dio. “Tu sei invidioso perché io sono buono”? dice il padrone a coloro che mormoravano.
La parabola ci mette di fronte al fatto che la bontà, di cui molti potrebbero approfittarsene, può generare invidia.
Noi chiediamo al Signore di lasciaci affascinare dalla sua bontà, una bontà che dovrebbe farci riconoscere gli uni gli altri come fratelli da amare e non persone da fregare, per cui, se Dio tratta con bontà e generosità i nostri fratelli, noi dovremmo essere contenti.
Lasciamoci affascinare dalla bontà di Dio: solo così, il giorno dopo, ci faremo trovare sulla piazza alla prima ora.
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